Il Minnesota Starvation Experiment, una ricerca molto controversa creata da Ancel Keys, mostra gli effetti psicologici e fisici della malnutrizione estrema.

 

Ormai molti anni fa Ancel Keys mise in piedi uno studio per osservare durante sei mesi, quali fossero gli effetti fisiologici e psicologici di una dieta con una forte restrizione calorica e sul modo migliore di nutrire e riabilitare chi aveva sofferto condizioni di fame e malnutrizione estrema.

Il 19 novembre 1944, con la seconda guerra mondiale che stava per concludersi e le forze alleate che si facevano strada tra la distruzione e la miseria di un Europa devastata dalle bombe, negli Stati Uniti iniziava un controverso ed estenuante esperimento che, per quanto datato, ancora oggi suscita un notevole interesse clinico. L’avanzata dei soldati americani verso Berlino faceva incontrare ogni giorno civili, che in fuga dalla furia della battaglia, erano riusciti a sopravvivere con pane, patate e poco più, sopportando ogni tipo di privazione psicofisica.

Ancora relativamente poco la scienza si era occupata della fame umana e sugli effetti globali che essa poteva avere sull’organismo umano. Così Ancel Keys, un giovane professore dell’Università del Minnesota e consulente del dipartimento di guerra, mise in piedi uno studio per osservare durante sei mesi, quali fossero gli effetti fisiologici e psicologici di una dieta con una forte restrizione calorica e sul modo migliore di nutrire e riabilitare chi aveva sofferto condizioni di fame e malnutrizione estrema.

Per lo studio, che successivamente prese il nome di “Minnesota Starvation Experiment”, furono selezionati 36 giovani obiettori di coscienza normopeso e in piena salute, che si erano offerti volontari rispondendo a uno strano volantino che chiedeva: Will you starved that they be better fed? (Morirai di fame affinché vengano nutriti meglio?).

Durante lo studio i vari partecipanti erano liberi di frequentare i loro corsi universitari, ma avevano l’obbligo di dormire nel laboratorio di igiene dell’università e di assolvere a diversi compiti durante la settimana, quali percorrere almeno 35 chilometri a piedi e consumare circa tremila calorie al dì con attività varie, a fronte di un apporto calorico giornaliero dalla dieta di solo 1800 calorie. L’obbiettivo era di perdere almeno 1 Kg a settimana, fino a raggiungere una riduzione di peso del 25% alla fine del periodo di digiuno. La quantità di cibo che ogni uomo riceveva durante i pasti dipendeva da quanto veloce stesse progredendo verso il suo obbiettivo settimanale.

Man mano che l’esperimento andava avanti, i partecipanti cominciarono a essere più affamati, l’entusiasmo iniziale cominciò a scemare e il potente effetto della limitazione del cibo iniziò a fare effetto.

Gli uomini riportarono numerose modificazioni fisiologiche come: ridotta tolleranza alle basse temperature, vertigini, stanchezza estrema, indolenzimento muscolare, dolori addominali, scomparsa del desiderio sessuale, perdita di capelli, ridotta coordinazione, ipersensibilità al rumore e alla luce e ronzii nelle orecchie. Oltre a questi sintomi furono rilevati anche importanti cambiamenti psicologici: depressione, irritabilità, apatia, ansia, sbalzi del tono dell’umore.

Molti lasciarono le lezioni universitarie perché semplicemente non avevano più energie e motivazioni necessarie per frequentare con costanza e concentrarsi.

Questa inedia prolungata pian piano alimentò ideazioni ossessive riguardo il nutrirsi, un atto che ben presto divenne ritualizzato, al fine di alleviare l’enorme sofferenza data dal digiuno forzato. Molti diluivano il loro cibo con acqua per farlo sembrare di più, altri sminuzzavano gli alimenti in piccolissimi pezzetti, altri ancora tenevano il boccone a lungo in bocca per assaporarlo meglio. Tutti quanti cominciarono a mangiare più lentamente nel tentativo di allungare il tempo passato a contatto con il cibo e la maggior parte arrivò a masticare una moltitudine esagerata di chewing-gum e a bere una gran quantità di tè e caffè per attenuare la sensazione di fame.

Molti uomini cominciarono a collezionare libri di cucina e di ricette. Ormai il cibo era diventato un pensiero fisso e assillante che non riuscivano più a togliersi dalla testa. Parecchi fra gli obiettori non riuscirono ad aderire alla dieta e manifestarono episodi bulimici, seguiti da rimproveri a se stessi e sensi di colpa. Un partecipante passando davanti a un fornaio, fu attirato così tanto dall’odore dei dolciumi all’interno, che addirittura comprò una dozzina di ciambelle per poi distribuirle a dei bambini in strada, con il solo intento di poterli guardare mentre si abbuffavano davanti a lui.

Una volta finito l’esperimento, la maggior parte dei partecipanti, non avendo più restrizioni riguardo la dieta, non riuscì per molti mesi a tornare a un regime alimentare normale, mangiando in maniera smoderata e arrivando a essere sovrappeso. Alcuni in seguito alle frequenti abbuffate, furono costretti a rivolgersi al pronto soccorso per farsi sottoporre a lavanda gastrica.

Questo esperimento, come già detto, seppur concluso da quasi ottanta anni, ha ancora una grande importanza dal punto di vista clinico e diagnostico. I sintomi che accusarono i giovani infatti, sono quelli che comunemente vengono riscontrati in un disturbo alimentare, nello specifico l’anoressia nervosa.

Le alterazioni emotive, sociali, cognitive, fisiche e del comportamento alimentare osservate negli obiettori di coscienza sono le stesse che, di fatto, si riscontrano nelle persone affette da anoressia nervosa e possono, per molti aspetti, essere considerate conseguenze dirette del digiuno.

Nella pratica clinica quindi, un aspetto fondamentale da chiarire dal punto di vista psicoeducativo, sta nel comprendere come i complessi sintomi emotivi e cognitivi che si pensava fossero esclusivi dell’anoressia nervosa, sono da ritenersi causati in realtà dal repentino calo ponderale e dalle condizioni di estremo sottopeso in cui molto spesso versano le pazienti che presentano tale disturbo.

 

Scritto da: Francesco Monticelli