Quando si parla di violenza, l’attenzione mediatica si concentra spesso sulle storie che finiscono in tragedia. Ma ci sono vittime che sopravvivono: donne, uomini, adolescenti che restano in vita dopo un’aggressione, spesso subita in ambito domestico o relazionale. La loro non è solo una sopravvivenza fisica: è una resistenza quotidiana, invisibile, che si consuma nel corpo, nella mente, nella memoria. Il trauma invisibile: chi sopravvive a un’aggressione violenta spesso porta dentro di sé ferite che non si vedono. Il trauma psicologico può manifestarsi con disturbi d’ansia, attacchi di panico, insonnia, depressione, difficoltà relazionali. In molti casi, il disturbo posttraumatico da stress (PTSD) diventa una presenza quotidiana: flashback improvvisi, ipervigilanza, senso di colpa per essere sopravvissuti, fatica a fidarsi degli altri e, non da ultimo, una profonda perdita di senso. Essere sopravvissuti non significa essere “fuori pericolo”. Significa, piuttosto, imparare a convivere con un prima e un dopo che non coincidono più.
La solitudine dei sopravvissuti: spesso chi è sopravvissuto si sente isolato e può aver perso la rete sociale di riferimento, può provare vergogna o colpa per non essersi “difeso abbastanza”, o per aver “permesso” che la violenza accadesse. Il giudizio sociale, anche implicito, può essere devastante. In alcuni casi, la vittima deve affrontare la convivenza forzata con l’aggressore, se le condizioni familiari o legali non permettono una reale separazione.
Le strategie per restare in piedi sono diverse: ogni persona reagisce in modo diverso, ma alcune strategie psicologiche possono aiutare a costruire o ricostruire un equilibrio quotidiano:
-Raccontarsi: trovare uno spazio sicuro dove poter narrare la propria esperienza senza essere giudicati è il primo passo per ricominciare.
– Dare un nome al dolore: riconoscere di aver subito un trauma aiuta a ridurre il senso di colpa e a comprendere che le reazioni emotive intense hanno una radice precisa.
– Ricostruire il senso di sé: la violenza può annientare l’identità; il lavoro psicologico è volto a restituire dignità, valore, agency alla persona.
-Stabilire routine e confini: piccoli rituali quotidiani, attenzione al corpo, gestione del tempo e dell’ambiente possono restituire un senso di controllo sulla propria vita.
– Trovare una comunità: uscire dall’isolamento, incontrare altre persone che hanno vissuto esperienze simili, può generare un senso di appartenenza che cura.
– Elaborare il perdono o la rabbia: non tutte le vittime scelgono di perdonare, ed è legittimo. L’obiettivo non è cancellare il dolore, ma imparare a non esserne schiacciati.
La resilienza non è un dovere: c’è un rischio insidioso, oggi, nel celebrare la resilienza a ogni costo, come se essere sopravvissuti comportasse l’obbligo di essere forti, grati, migliori, ma chi ha subito violenza ha il diritto di stare male, di avere momenti di rabbia, fragilità, ricadute. La vera resilienza non è l’assenza di sofferenza, è la possibilità di attraversarla senza perdere completamente se stessi.
Il ruolo della comunità è fondamentale, infatti come comunità ci interroghiamo su come possiamo sostenere, e non giudicare, chi sopravvive alla violenza, questo significa ascoltare senza pregiudizi, non chiedere “perché non sei andata via?”, offrire spazi sicuri e risorse accessibili, non solo nell’emergenza, ma nella lunga fase di ricostruzione.
Sopravvivere non è un punto d’arrivo, ma un processo. Un percorso che può durare anni, che richiede rispetto, ascolto e cura. Restare accanto alle vittime significa riconoscere la loro forza, senza romanticizzarla, e offrire la possibilità di una vita che non sia solo resistenza, ma anche rinascita.