La prima metà de “La scoperta dell’inconscio” è dedicata a ricostruire la preistoria della psicoterapia dinamica e la seconda alle sue figure principali

 

Nel 1970 usciva il più importante libro mai pubblicato nel campo della storia della psicologia dinamica, ovvero La scoperta dell’inconscio. Il suo autore, Henri Ellenberger, acquisì con la pubblicazione un’immediata e meritata fama, per un lavoro che era il frutto di anni e anni di ricerche su materiale che non solo era inedito ma spesso era emerso da vere e proprie cacce al tesoro.

Il testo era suddiviso in una parte storica generale (i primi cinque capitoli e gli ultimi due) e in quattro ampie sezioni che costituiscono altrettante monografie tematiche sulle figure di Pierre Janet, Sigmund Freud, Alfred Adler e Carl Gustav Jung, articolate sia sul piano biografico che su quello teorico e documentate sia sui precedenti intellettuali che sulle successive influenze dei quattro padri fondatori della psicologia del profondo. Se tuttora ben pochi lavori su Freud e Jung possono essere considerati testi introduttivi di pari livello, non è azzardato affermare che non esistano a tutt’oggi né un libro su Janet, né un libro su Adler che siano minimamente avvicinabili per documentazione e completezza ai contributi di Ellenberger. Si noti peraltro che nessuno aveva mai redatto una biografia intellettuale di Janet prima di lui e tanto più il lavoro di Ellenberger appare quasi miracoloso nella sua documentazione. Per quanto Hacking (1996) abbia notato che La scoperta dell’inconscio fosse forse troppo attenta agli esordi di Janet rispetto agli scritti più tardi, è anche vero che sono stati i suoi primi interventi a donargli una notorietà internazionale. Nei suoi ultimi anni, invece, la “medicina psicologica” di Janet era stata in sostanza dimenticata, a favore della psicoanalisi.

Quello di Ellenberger non costituì un puro e semplice lavoro di scavo e ricostruzione storica ma anche una radicale reinterpretazione: la stessa immagine della psicologia del profondo ne è risultata cambiata in modo definitivo. Forse non è esagerato dire che la stessa storia della storiografia psicologica si può dividere in un “prima” e un “dopo” Ellenberger.

Una simile premessa potrebbe lasciare sconcertati i lettori, soprattutto i giovani psicologi, che non si sono formati, probabilmente, su quest’opera e non ne conoscono i meriti, che a 50 anni di distanza possono essere meno ovvi a chi la prenda in mano per la prima volta. Proviamo a tornare indietro nel tempo e a cercare di rievocare l’atmosfera culturale dell’epoca. Nello stesso anno in cui uscivano Let It Be dei Beatles e Bitches Brew di Miles Davis, mentre la guerra del Vietnam aveva raggiunto l’apice dell’escalation militare, il mondo della psicoterapia era ancora dominato in gran parte dalla psicoanalisi freudiana – Aaron Beck quasi si autodefiniva ancora uno psicoanalista. Freud era considerato un eroe senza macchia e senza paura che aveva scoperto l’inconscio da solo e aveva difeso la Verità nonostante i molteplici tradimenti di suoi infidi ex-allievi; nonostante l’incapacità (o meglio le resistenze) del mondo, di comprendere la portata rivoluzionaria della dottrina psicoanalitica. Questa almeno era l’immagine che Freud (1914, 1924) aveva propagandato di sé stesso e quella che emergeva dalla lettura della biografia agiografica scritta dal fido Ernest Jones (1953). Nessuno l’aveva di fatto messa in discussione: le storie della psichiatria più conosciute (Alexander, Selesnick, 1966; Zilboorg, Henry, 1941) vedevano in Freud il culmine insuperato e pressoché insuperabile degli sforzi umani in questo campo.

Ellenberger fu il primo a mettere in discussione molti aspetti della leggenda freudiana. In primo luogo, anche sulle tracce di Whyte (1960) chiarì che la “scoperta dell’inconscio” non era certo il frutto del genio (pur notevole) di un solo uomo e che la psicoanalisi non era nata da un giorno all’altro come Minerva secondo il mito era uscita già adulta e armata dalla testa di Giove. Tutta la prima metà del libro è dedicata a ricostruire la preistoria della psicoterapia dinamica, andando a scovarne le origini fin nell’antichità. Le idee paradigmatiche che fungevano da lanterne per illuminare il passato erano quelle di transfert e di suggestione. Ellenberger partiva dal corretto presupposto che la prima tecnica psicoterapeutica freudiana si basava sul rapporto speciale che si instaura tra curatore e curato e sulla possibilità che tale rapporto sia la necessaria premessa per indurre in quest’ultimo un miglioramento della propria condizione. Se Freud era stato costretto ad ammettere (almeno nei primissimi scritti) il proprio debito verso i pionieri dell’ipnosi clinica Charcot e Bernheim, Ellenberger va a esplorare specificamente i contributi di questi ultimi, illuminando in profondità i termini della disputa tra “Scuola della Salpêtrière” e “Scuola di Nancy”, delle quali appunto Charcot e Bernheim erano i rispettivi alfieri. Il suo percorso esplorativo, tuttavia, non si ferma a questo punto, ma ricostruisce le radici dell’impiego dell’ipnosi nella storia del cosiddetto mesmerismo, risalenti a più di un secolo prima. Era stato infatti Franz Anton Mesmer, con la teoria del “magnetismo animale” a operare quella secolarizzazione o laicizzazione dell’esorcismo che era all’origine di ciò che solo in seguito sarebbe stato chiamato ipnosi. Mesmer aveva infatti ottenuto con un’attrezzatura paradossale (ma fortemente suggestiva) e sulla base di una teoria di carattere fisico (o pseudo tale) gli stessi risultati in termini di guarigioni di malattie che il prete Johan Josef Gassner otteneva sulla base di riti religiosi volti a cacciare presunti demoni. Un simile passo, dal punto di vista storiografico, consentiva di affondare ancora le radici della ricerca, individuando appunto nei rituali di esorcismo (occidentali e non solo) le origini più lontane della psicoterapia.

Soprattutto, però, Ellenberger illuminava particolari assolutamente inediti della vita di Freud. Da un lato era riuscito a consultare materiale d’archivio inedito a proposito della suoi primi anni (fu il primo, per esempio, a utilizzare le giovanili lettere a Silberstein); dall’altro aveva modo di provare come diversi particolari della narrazione avallata da Jones erano artefatti. Alcuni peccati erano relativamente veniali: per esempio Freud si vantava di essere stato il primo a presentare ai colleghi medici viennesi, nel 1866, un caso di isteria maschile e di essere stato attaccato per la novità assoluta del suo contributo. Di fatto le cose andarono in senso opposto: proprio perché non si trattava di una novità, il suo intervento venne accolto freddamente: come pretendeva di presentare come inedito qualcosa che ormai tutti conoscevano? Altri elementi di autocelebrazione erano assai meno innocenti: Freud e Jones presentavano come veri e propri tradimenti da parte di indegni allievi le vicende legate alle rotture con Jung e Adler prima e con Rank e Ferenczi poi. Di fatto, al contrario, Freud fu almeno altrettanto responsabile quanto Adler della sua uscita dal movimento psicoanalitico, dato che lo accompagnò, per così dire, alla porta, non tollerando il dissenso sulla questione della libido, e manifestò grande soddisfazione per le sue dimissioni dalla società psicoanalitica. Lo stesso si può dire di Jung, in un primo momento considerato un possibile “principe ereditario” e poi attaccato con violenza (Freud, 1914) non appena osò mettere in discussione in pubblico l’idea che la libido avesse un carattere soltanto sessuale (Jung, 1912); e soprattutto avanzare l’idea che la teoria freudiana e quella adleriana potessero avere altrettanti elementi di legittimità (Jung, 1913). Rank, in seguito, ricevette una vera e propria scomunica per aver sostenuto una teoria (quella del “trauma della nascita”) che in un primo tempo Freud era incline ad accettare. Ferenczi venne anch’egli marginalizzato per idee originali in materia di psicoterapia. Si tratta peraltro di idee che di fatto anticipano la psicoanalisi relazionale, che oggi sembra la forma di psicoterapia dinamica più vivace dal punto di vista degli sviluppi teorico-clinici.

Va detto che, se Ellenberger e poi Sulloway (1979) avevano offerto di Freud un’immagine meno eroica e immacolata di prima ma certamente assai equilibrata, negli anni novanta del Novecento la revisione dell’immagine storica del padre della psicoanalisi aveva assunto contorni diversi e per certi versi quasi grotteschi. Autori come Crews (1995, 1998) Fuller-Torrey (1992), Macmillan (1991) e altri diedero origine a quello che è stato chiamato il Freud bashing, cioè una sorta di moda a chi attribuiva a Freud le peggiori nefandezze, si trattasse di aver creato la psicoanalisi sotto l’influsso della cocaina o aver corrotto i giovani americani con una teoria dannosa per il fisico e la psiche. Non è però Ellenberger a essere direttamente colpevole di tali eccessi, malgrado la circostanza che lo ha visto anche additato tra i “nemici di Freud”. Al contrario, parafrasando un detto latino, per Ellenberger “amicus Freud sed magis amica veritas”: se Freud è da considerare un “amico”, ancora più “amica” è la verità storica. Se Freud rimane la figura centrale nello sviluppo della psicologia dinamica, il ruolo di Adler, Jung e Janet doveva essere rivalutato. E in effetti, se per Jung è stato possibile riconoscere quanto la sua prospettiva fosse per molti aspetti assai più vicina di quella freudiana a quella della psicoanalisi odierna (Samuels, 1985), se Adler è stato riconosciuto come un anticipatore della psicoterapia cognitiva (cfr. Foschi, Innamorati, 2020), oggi sembra giunto il momento di rivalutare finalmente anche Janet, l’unico oggetto di attenzione di Ellenberger a lungo trascurato da storici e clinici (Craparo, Ortu, van der Hart, 2019).

 

 

Scritto da: Marco Innamorati

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