La fatica è spesso un fattore nevrotico, che ha a che fare con significati inconsci rispetto al senso di un certo compito o alla posizione del soggetto rispetto alla vita.
È esperienza comune notare come, nella vita di tutti i giorni, grandi sforzi, fisici o intellettuali, possano portare grandi soddisfazioni e grandi sensazioni di vitale energia, non solo alla fine, anche e soprattutto durante la loro esecuzione. Ed è altrettanto comune notare come sensazioni di grande affaticamento possano sopraggiungere anche senza alcuna motivazione “reale”, senza alcuno sforzo o lavoro apparenti che possano fare da causa.
Semplici osservazioni come queste ci portano a scartare un’idea che invece è spesso data per scontata: che la fatica sia l’effetto di un certo sforzo o lavoro effettuato nella realtà, che la fatica sia qualcosa di naturale, che accade naturalmente a seguito di esperienze uguali per tutti. Di fronte a osservazioni tratte dalla vita quotidiana come quelle riportate ora, questa idea realistica e naturalistica di fatica vacilla.
Cos’è dunque la fatica? Come e quando sopraggiunge? E perché?
Certamente non possiamo qui ambire a formulare teorie onnicomprensive. Possiamo però tratteggiare qualche indicazione, gettare sul piatto qualche piccola suggestione.
Possiamo ad esempio dire che la fatica ha a che fare con il “peso”. Quanto peso abbiamo addosso mentre portiamo a termine compiti apparentemente banali? Ecco una buona domanda per entrare in una relazione di comprensione con ciò che a prima vista non si comprende, e cioè, seguendo l’esempio, come mai alcune persone testimoniano di fare una estrema fatica a portare a termine compiti che per altre sono come bere un bicchier d’acqua. Quale e quanto peso ha addosso il soggetto rispetto a un determinato lavoro? Che peso ha il senso e il significato di quel lavoro in rapporto al senso e al significato di quel soggetto?
Possiamo anche cambiare prospettiva clinica, e dal peso dell’ “oggetto” passare a prendere in considerazione la posizione del soggetto rispetto a un dato peso. Lo si nota nei gruppi, ad esempio: non sarà la stessa cosa, non si farà esperienza della stessa fatica a seconda che ci si trovi in posizione di “architrave”, o “muro portante”, oppure in posizioni più laterali, marginali. Il soggetto che è collocato (spesso inconsciamente) nella posizione del risolutore, del “tuttofare” – è bene specificarlo, suo malgrado! – farà esperienza di una certa quota di affaticamento ogni qualvolta è chiamata, in situazioni della realtà, a funzionare quella identificazione inconscia all’asse portante, al tuttofare.
E che dire della fatica quando si presenta in una forma pura e slegata da qualsiasi riferimento alla realtà? Quando qualcuno prova stanchezza e affaticamento senza che nessun tipo di compito o lavoro sia presente né mai stato richiesto? Questa condizione è, tra quelle rapidamente qui prese in esame, forse la più radicale.
Possiamo qui fare l’ipotesi che un soggetto, anche immobile, anche senza che compia il minimo movimento o impegno, sia comunque al lavoro. Possiamo ipotizzare che il lavoro, lungi dall’essere qualcosa che viene sempre da un committente esterno, da un “datore”, sia in realtà anche e soprattutto qualcosa di “interno”, qualcosa che nella sfera dell’intrapersonale può impegnare il soggetto talvolta molto più di un qualunque lavoro comunemente inteso.
Il lavoro può talvolta essere qualcosa di puramente mentale che impegna il soggetto su fronti che non hanno niente a che fare con la realtà. Ricordi penosi, parole o frasi ricorrenti, immagini angoscianti, memorie incistate, discorsi interiori densi e ingombranti. Il soggetto al lavoro su questo fronte apparirà agli amici, conoscenti, a chi osserva da fuori incomprensibile.
Ecco alcune rapidissime vignette che ci portano a problematizzare la questione del lavoro e della fatica e, forse, ci aiutano a intraprendere un’operazione di autentica comprensione. È ciò che la clinica psicoanalitica consente: una maggiore frequentazione e comprensione dell’inconscio.
Scritto da: Alessandro Siciliano