“È più forte di me”, in questa forma il soggetto incontra ciò che nella vita non quadra, non torna rispetto al proprio ideale, al proprio progetto. E anche, spesso, ciò che invita al nuovo.

 

“L’Io non è padrone in casa propria”.

Così Freud condensava una delle maggiori lezioni che la psicoanalisi ha apportato alle scienze dell’uomo: che la psicoanalisi ha, a sua volta, occorre ricordarlo, appreso dalla clinica delle isterie, dalle pazienti di Freud e Breuer; non si tratta cioè di filosofia o speculazione. Non essere padroni in casa propria vuol dire innanzitutto essere avvertiti del fatto che l’Io rappresenta solo una piccola parte della “vita” che si compie dentro e fuori di noi, di ciò che ci attraversa, ci cattura, ci scombussola, ci altera e ci rende talvolta irriconoscibili a noi stessi. L’io si fonda sull’immagine di sé allo specchio, sul proprio riconoscimento, ma aldilà dello specchio, come insegna la favola di Alice, si apre il mondo di ciò che sfugge alla nostra padronanza.

Capita di fare esperienza di una tale perdita di padronanza anche nella vita quotidiana. Quando qualcosa accade aldilà delle nostre intenzioni, siamo soliti intendere quel qualcosa come casuale: una dimenticanza, un lapsus, un sogno a occhi aperti, piccoli tic. Quando invece quel qualcosa che accade aldilà delle nostre intenzioni si ripete più volte, uguale a se stesso, torna sempre nelle stesse circostanze, inizia a imporsi con prepotenza e con “durezza”, arrivando talvolta fino a governare e imporre il proprio diktat alla vita del soggetto, in quel caso parliamo di sintomo. Un attacco di panico ogni qual volta si imbocca una galleria; un attacco d’ansia ogni qual volta si esce di casa per un certo appuntamento; una perdita di concentrazione rispetto a un dato compito; l’obbligo di controllare cento volte la stessa situazione. Sono momenti in cui il soggetto fa esperienza di qualcosa che “è più forte di me”.

Di fronte a ciò che “è più forte di me”, pare che cento anni di psicoanalisi non siano bastati a far passare, una volta per tutte, un approccio che tenga in conto che anche in ciò che “è più forte di me”, si tratta ancora di “me”, cioè che quel qualcosa che si manifesta come sintomo nella vita di un soggetto riguarda il soggetto stesso, gli appartiene, rappresenta qualcosa che preme per essere inteso, accolto, ascoltato. Certo, per il buon intenditore!

Assistiamo ancora oggi, invece, a terapie e approcci “psi” che puntano alla “distruzione” del sintomo tramite esercizi, compiti, tecniche di rafforzamento dell’io. Terapie che lavorano cioè sulla difesa e sul suo irrobustimento, contro quel sintomo trattato come qualcosa che verrebbe da un qualche “fuori”, da un luogo altro e potenzialmente nemico, rispetto a cui occorrerebbe difendersi. L’esito di questo tipo di approccio alla questione sintomatica non potrà che essere sempre e solo fallimentare, per il semplice motivo che il sintomo non è qualcosa che ci viene scagliato addosso da un fronte esterno nemico e malintenzionato, ma viene “da dentro”, da quel luogo che sfugge alla nostra padronanza e che in psicoanalisi chiamiamo inconscio.

Tanto più, allora, quella piccola dimensione della nostra esperienza che chiamiamo “Io” sarà difesa, rigida, fortificata, tanto più la voce dell’inconscio sarà avvertita come orribile, oscena e minacciosa.

La psicoanalisi vede nel nodo sintomatico qualcosa che di autentico e di potenzialmente vitale bussa alle porte dell’io per trovare ascolto e nuovo riconoscimento. In questa zona di “conflitto” si dà, in psicoanalisi, la posta in gioco di una nuova evoluzione, la possibilità di giungere a nuove e migliori soddisfazioni grazie al ricongiungimento con parti di sé originariamente scongiurate. “Un’opportunità di ripartire”, in modi nuovi e soprattutto inediti, perché non si tratta di qualcosa di già scritto, come una certa idea di destino porterebbe a pensare, ma rispetto a cui il soggetto ha un margine di libertà.

Scritto da: Alessandro Siciliano

 

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