Seppur ognuno esperisce ed elabora in maniera diversa il dolore, è possibile comprendere meglio le nostre reazioni analizzando le fasi di questo processo

Ognuno di noi al giorno d’oggi, in qualunque parte del mondo, sta sperimentando un senso di perdita in diversi modi e livelli. Perdita della libertà individuale, di un futuro prevedibile, della stabilità economica (spesso già incerta), delle connessioni, delle certezze. Potremmo dire, in una sola parola, perdita della normalità.

Il mondo non è più quello di 3-4 settimane fa e questo ci sta colpendo nel profondo, lasciandoci esperire un dolore collettivo a cui non eravamo abituati. “Siamo tutti sulla stessa barca” abbiamo diverse volte sentito o in alcuni casi, finalmente, realizzato, eppure ognuno esperisce il senso di perdita in maniera diversa.

Vi è poi quello che viene definito dolore anticipato: accade quando temiamo per l’incolumità propria o di un famigliare, quando si riceve una diagnosi terribile e ci si prefigura il peggiore degli scenari. Questo lutto anticipato può essere anche un futuro che non abbiamo immaginato, una tempesta per cui nessuno è equipaggiato. È il virus lì fuori che rompe il nostro senso di sicurezza. Abbiamo paura per i nostri cari, per la nostra salute, per il nostro lavoro, per il nostro paese, per quello che sarà dopo e in fondo per la morte stessa. Seppur ognuno esperisce ed elabora in maniera diversa il dolore, appellandosi a una esperienza universalmente condivisa di esso, è possibile comprendere meglio le nostre reazioni individuali e collettive.

I sei stadi nel processo del dolore

In questo processo ci guida David Kessler, esperto mondiale sul dolore, e co-autore del libro On Grief and Grieving insieme a Elisabeth Kübler-Ross. Il primo passo per affrontare il dolore è comprenderlo e, per aiutarci a farlo, gli autori ricercano quei vissuti che, tutti, seppur in diverso ordine, ci troviamo a sperimentare.

  1. Negazione

“È una esagerazione dei media.”

“È una semplice influenza, la gente la prende ogni anno e solo raramente si muore.”

“Non sono vecchio/a, immunodepresso/a o con altre patologie, questo virus non mi riguarda.”

La negazione è il rifiuto emozionale ed intellettuale di qualcosa che è chiaro ed ovvio. Ed è qualcosa che abbiamo ereditato dai nostri antenati. L’evoluzione ha creato nell’uomo la capacità di negare tanto il dolore fisico quanto quello emotivo per un breve periodo di tempo, al fine dell’autoconservazione.

  1. Rabbia

“È tutta colpa della Cina.”

“Mi stanno privando della mia libertà e diritti rinchiudendomi in casa.”

“Non mi interessano le misure preventive istituzionali, io esco lo stesso.”

Il sentimento di rabbia conferisce spesso potenza o l’illusione di essa, quando sentiamo di perderla o non averla. Ricorriamo alla rabbia nel tentativo di avere il controllo sugli altri e sulle nostre paure. Così, spesso, più che accettare e affrontare il problema, lo proiettiamo all’esterno, divenendo ostili, incolpando gli altri, o non rispettando le regole.

  1. Negoziazione

“Ok, se osservo la distanza sociale per 2 settimane ogni cosa andrà meglio, no?”

“So riconoscere le persone malate, quindi starò bene finché me ne tengo a distanza.”

“Questo sarà finito per Pasqua, saremo salvi allora e potremo tornare alla normalità.”

Come in qualsiasi compromesso, la negoziazione giunge nel momento in cui la negazione inizia a farsi debole e si inizia a prendere atto della realtà, ma non si è ancora pronti per arrendersi all’illusione di avere ancora il controllo. E allora si patteggia una soluzione win-win per entrambe le parti.

  1. Disperazione

“Non so se e quando tutto questo finirà.”

“Non posso andare a lavoro, non ho più uno stipendio, tra poco non avrò più un tetto e da mangiare.”

“Sono ad alto rischio e probabilmente morirò solo. Nessuno verrà quando accadrà.”

Quando la negazione viene del tutto spazzata via e ogni forma di controllo e potere è perduta, si insinuano disperazione e depressione. Ci si riversa sull’autocommiserazione e nonostante ci siano evidenze contrarie, ci si prefigura solo il peggio.

  1. Accettazione

“Non posso controllare la pandemia, ma posso fare del mio meglio per tenerla a bada.”

“Il fatto che non posso lasciare la mia casa non significa che la mia vita si sia fermata. Ci sono un sacco di cose che posso fare o continuare a fare da casa.”

“Il mondo cambierà, ma alla fine di questo saremo migliori.”

L’accettazione subentra quando ci si arrende all’evidenza della realtà e anziché continuare ad opporvi resistenza, la si affronta nel modo più efficace possibile. L’accettazione sta anche in una forma di potere ritrovato: osservare la distanza sociale, lavarsi le mani frequentemente, adattarsi a lavorare da casa conferisce quel controllo e rassicurazione di cui si aveva bisogno.

  1. Dare senso

Riusciremo a dare un senso a tutto questo, magari non immediatamente subito, magari mesi dopo, ma troveremo la luce anche in quelle ore più buie. È il pensiero di Kessler, a cui si deve l’aggiunta del sesto stadio del processo del dolore, che terminava con l’accettazione.

Già ora la gente ne sta traendo significato: ci si accorge che è possibile abbattere anche la più impensabile distanza grazie alla tecnologia e che quindi non siamo poi così lontani come pensiamo, o l’apprezzare una semplice passeggiata all’aria aperta, il potere salvifico della natura che impervia e fiorisce nonostante la tempesta come accade in primavera. La gente continuerà a trovare un significato e a trarne del buono, quando tutto sarà finito.

E se, pur dopo aver letto tutto questo, ci si sentisse ancora sopraffatti dal dolore?

È l’ultima domanda posta a Kessler nell’intervista della Harvard Business Review. Continua a provare, lui risponde. “Emotion needs motion”. È importante riconoscere quel che stiamo attraversando. C’è qualcosa di straordinariamente potente nel nominare questo come dolore. Ci aiuta a sentire cosa c’è dentro di noi. Quante volte diciamo a noi stessi “Sono triste, ma non dovrei sentirmi così, c’è chi sta peggio.” Non ci autorizziamo a provare dolore, quasi vergognandocene. Ma lottare contro quel che proviamo, negarlo, non ci aiuta a lasciarlo andare via, anzi lo amplifica. Abituiamoci a concederci questi sentimenti, ad accettarli ed esperirli per pochi minuti senza negarli o respingerli. Permettendo ai nostri sentimenti di accadere, questi saranno meno irruenti e da essi ne usciremo fortificati.

Scritto da: Letizia Muro

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