Per affrontare il coronavirus è stato necessario stabilire delle rigide norme di comportamento. Quali fattori influenzano il rispetto di queste regole?
Dopo l’effetto della paura sui nostri comportamenti, oggi parliamo di quali sono le basi psicologiche correlate al rispetto delle regole. Argomento importante in generale ma, soprattutto, in una condizione particolare come quella che stiamo vivendo. Articolo originariamente pubblicato su Medical Facts il 26 marzo 2020
Molte cose sono incerte in questo momento, ma una è certa: l’azione di contenimento dell’epidemia richiede interventi specifici sul comportamento delle persone. Mentre gli epidemiologi cercano di capire l’andamento dell’epidemia, i virologi in laboratorio studiano e fanno ricerca per sviluppare un vaccino o una terapia specifica, medici e infermieri in ospedale cercano di salvare più vite umane possibile, mentre economisti cercano di ipotizzare scenari sostenibili futuri, l’azione di contenimento è basata sul controllo del comportamento delle persone in base alla regola: dobbiamo distanziarci socialmente, dobbiamo stare a casa.
Il comportamento è influenzato da due fattori principali: l’esperienza diretta, afferro il manico bollente della caffettiera e mi scotto, (e la prossima volta sto ben attento a usare una presina), o l’esperienza trasmessa a parole , “non andare dove non tocchi che affoghi”. La prima è più efficace, la seconda previene da esperienze pericolose o letali.
L’esperienza diretta funziona nel far percepire alle persone il pericolo della vicinanza e nel mantenere la gente a casa, principalmente per le persone che hanno un parente ricoverato in ospedale o un parente che lavora come medico o infermiere in ospedale; in altre parole per chi ha avuto esperienza personale della sofferenza e della preoccupazione. Per gli altri dovrebbe essere sufficiente la proposizione di una regola che descrive le conseguenze di un comportamento: dobbiamo stare a casa per limitare le occasioni di contagio tra persone. Abbiamo visto come la percezione del rischio, per diversi motivi, sia ancora bassa, e troppa gente continui a essere per strada (ogni giorno sempre meno, fortunatamente).
Le regole
Perché una regola funzioni, con un gioco di parole direi che bisogna rispettare alcune regole, principi che derivano dai dati sperimentali. Il comportamento da mantenere/modificare deve essere espresso in modo chiaro, limitando il più possibile le ambiguità, le contraddizioni e le eccezioni. Mantenere una distanza di 1,5 metri da un’altra persona è chiaro, comprensibile, misurabile, basato su dati certi (la distanza che il virus non può superare con il suo vettore, le goccioline di saliva). Infatti, stando almeno alle immagini delle persone in fila ai supermercati, funziona.
La regola “state a casa”, e il suo reciproco, “non uscite di casa”, presentano vari problemi. Impossibile rispettarla letteralmente: troppe le eccezioni, troppe le interpretazioni. Quali comportamenti “uscire di casa per” sono consentiti? Acquistare beni necessari (cibo, medicine), andare in posta, andare in banca, andare al lavoro, passeggiare/correre, aiutare un parente, “scendere” (sic!) il cane, gettare la spazzatura, e potrei continuare ancora per molto. Con quale frequenza queste uscite sono consentite? L’uscita del cane 2/3 volte al giorno va bene, ma la spesa ogni giorno non va bene. Non va bene neanche che la spesa si faccia nel centro commerciale o nell’iper dei paesi limitrofi invece che nel supermercato o nel negozio sotto casa, e non va bene neanche che il povero cane venga portato a fare i suoi bisogni lontano kilometri da casa.
Mi fermo per non diventare stucchevole e petulante. Il senso è questo: se bisogna stabilire regole di comportamento ci si deve affidare a esperti di comportamento umano, appartenenti a diverse discipline, i quali possono affrontare in primis un aspetto fondamentale delle regole: la descrizione delle conseguenze della violazione della regola. “Attento, che se vai in acqua dove non tocchi bevi e affoghi”: quante volte abbiamo visto la scena, con un bambino che comincia ad annaspare e un adulto che prontamente interviene per afferrarlo e portarlo in sicurezza? In questo caso la conseguenza della violazione della regola è certa, immediata e naturale.
Se si viola la regola “Non uscite di casa” la conseguenza non è invece così immediata, diretta e naturale, non è come “se tocchi l’asciugacapelli con mani e piedi bagnati ti prendi una bella scossa”. L’effetto del contagio non è lineare e immediato, c’è il periodo di incubazione, la probabilità (o quanto meno il pensiero) di sfangarla, l’”overconfidence bias” “ma io sto attento”, la giustificazione “ma io ho bisogno di…”. La catastrofe è in arrivo, ma non è ancora visibilmente arrivata pertanto è facile atteggiarsi in modo supponente all’invito a restare a casa.
Poi c’è un altro fattore per cui gli individui hanno un atteggiamento sprezzante nei confronti dei consigli di scienziati ed esperti di salute pubblica. La scienza del comportamento si è occupata della reattività psicologica, un concetto introdotto già nel 1966 dallo psicologo sociale americano Jack Brehm, che usa il termine reattanza (reactance) per descrivere una particolare forma di reazione a regole che minacciano o limitano alcune libertà di azione. Nelle sue parole, la reattanza psicologica si riferisce all’idea che nelle situazioni in cui le libertà individuali sono ridotte o a rischio di riduzione, le persone sembrano motivate a riconquistare tali libertà. Cioè, quando ci viene detto che cosa fare o non fare, una parte di noi è spinta a fare il contrario: popolarmente questo atteggiamento viene riassunto dalla frase “tutto ciò che è proibito è desiderabile” (antico proverbio arabo).
La reattanza è l’altra faccia della medaglia della compliance e dell’aderenza, termine con cui si indica il comportamento di seguire le prescrizioni e le indicazioni terapeutiche (anche i medici conoscono bene questo problema, dato si stima che il 50 % dei pazienti non segua correttamente le indicazioni terapeutiche). Ci sono sicuramente fattori socio-culturali, oltre che individuali, che influenzano questa reattività, ad esempio la concezione di Stato come bene comune frutto di un contratto sociale da rispettare (paesi nordici) o il concetto di libertà individuale che prevale su ogni cosa (Stati Uniti).
Gli esperti
Un altro elemento patogeno, che proviene dagli Stati Uniti e ha attecchito subito anche in Italia, è il fastidio per la competenza e verso gli esperti percepiti e etichettati come élite culturali (“professoroni”) con atteggiamento snob. Inoltre il coronavirus trova alimento in un virus sociale che è diventato endemico nella nostra società negli ultimi anni: disinformazione e ignoranza. Tuttavia, chi si occupa di scienza deve possedere l’umiltà di ricordarsi socraticamente che, a volte, e in contesti diversi, siamo tutti ignoranti. Dobbiamo tutti trattarla come una variabile conosciuta, di cui tener conto come condizione di partenza nell’elaborazione di una strategia comportamentale di intervento: prima cosa, ricordare che messaggi contrastanti generano confusione, e sono da evitare come la peste (per restare in tema).
Di tutti questi fattori i governanti dovrebbero essere consapevoli. Il momento di dar retta agli esperti (quelli veri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, non i ciarlatani) non è più procrastinabile, perché è grazie a loro che il mondo ha sconfitto malattie terribili come la poliomielite e resistito a epidemie recenti come l’Ebola. La Scienza si basa sulla realtà dei fatti, e richiede che i governanti dicano la verità: minimizzare la gravità della situazione, o cercare scuse e/o colpevoli (immaginari) per quanto sta accadendo è una pessima scelta, che oltretutto dà voce e potenzia la reattività: se penso che tutti ci mentano sono autorizzato a disobbedire alle “loro” regole.
Le opzioni da scegliere
L’esempio italiano dimostra che le misure devono essere messe in atto immediatamente, messe in atto con assoluta chiarezza e fatte rispettare rigorosamente. (Jason Horowitz)
Queste parole sono di Jason Horowitz, sul New York Times del 22 marzo. In effetti, seppur tardivamente, qualche paese che aveva atteggiamenti supponenti come quelli descritti nei paragrafi precedenti, ha poi seguito il suo consiglio.
Sulla chiarezza dal punto di vista comportamentale ho già detto, dal punto di vista del diritto lascio la parola a chi ne sa (Sabino Cassese sul Corriere del 24 marzo).
Circa il mettere in atto c’è un punto importante da chiarire: uso una metafora medica, in modo generico, sperando che il prof. Burioni non me ne voglia: la somministrazione sottodosaggio di un farmaco, sia un antibiotico per combattere un’infezione, o un antidolorifico per attenuare la sofferenza, è una delle scelte peggiori, non ottiene gli effetti dovuti e presenta comunque la tossicità di ogni farmaco. Il dosaggio va fatto conoscendo le caratteristiche del soggetto e della malattia da curare (per questo si consiglia di rivolgersi al proprio medico curante e di non seguire i consigli del vicino di casa).
Fuori di metafora il consiglio che l’esempio italiano può dare agli altri paesi (e che i loro governanti non seguiranno) è di partire subito con il dosaggio giusto, evitando interventi blandi a intensità progressiva. Il nostro paese sta ancora inseguendo il virus per questo motivo. Gli esperti sanitari (con qualche eccezione purtroppo) si erano espressi dall’inizio per una soluzione ad alto (giusto) dosaggio.
Spero sia chiaro a tutti che la soluzione lockdown, cioè chiusura totale delle attività-rimanere a casa, è necessaria ma non è sostenibile a lungo. Bisogna pensare ora anche al dopo, e bisogna pensare in termini strategici, sulla base di dati e di modelli. Tomas Pueyo, su Medium del 19 marzo, affronta sulla base dei dati il problema della scelta fra varie opzioni di intervento (mitigare vs sopprimere), usando la metafora the Hammer and the Dance, il martello e la danza. L’opzione martello significa agire subito in modo forte, chiusura e distanziamento totali. Se si adottano strategie di tracciamento dei contatti come quelle adottate in Cina, Korea, Singapore, questa fase può essere limitata nel tempo: dipende dalla capacità della popolazione di seguire disciplinatamente le regole (vedere sopra), in ogni caso possiamo ragionare in termini di settimane invece che di mesi di blocco e di isolamento totali.
La fase successiva è quella chiamata la danza. La metafora della danza viene usata nella psicologia del comportamento anche per descrivere le interazioni psicologiche genitori-figli, che si caratterizzano (dovrebbero) come un movimento armonico, sintonizzato, sincronizzato, agile. Nel caso dell’epidemia COVID-19 significa che dopo la fase Martello il virus non è stato debellato, però dovrebbe essere stato messo sotto controllo, per portare la mortalità a un livello accettabile e per guadagnare tempo in attesa dello sviluppo di un vaccino. Nella fase Danza continuano attività di quarantena, di test, di distanziamento sociale e di igiene, ma si eliminano le forme più severe di restrizione. Si modulano gli interventi in modo mirato a seconda delle zone e dei contesti, ma si fa riprendere la vita e l’attività di molte persone.
Ci serve tempo, dobbiamo prendere tempo, dice Pueio. Tempo da usare per sviluppare e applicare una strategia meditata, basata su dati attendibili, con il contributo degli esperti di molte discipline, che in questi giorni si sono espressi pubblicamente sui principali social media. E abbiamo bisogno anche del “coraggio della speranza”.
Scritto da: Paolo Moderato