L’alimentazione del bambino prevede diverse fasi ma fin dall nascita ha buone capacità autoregolatorie, durante l’allattamento già esprime fame o sazietà
L’alimentazione è un processo complesso: nell’infanzia il bambino viene alimentato dall’adulto a partire dall’allattamento per poi proseguire nello svezzamento sino a giungere all’alimentazione autonoma, coinvolgendo aspetti biologici, psicologici e sociali.
Una disarmonia in ciascuno di questi aspetti può “alterare” questo processo ed indurre condizioni patologiche non solo da un punto di vista medico, basti pensare al problema dell’obesità infantile che ha visto aumentare il tasso della percentuale dei bambini in sovrappeso in Italia al 20,9%, di cui il 2,2% indicati come severamente obesi.
Il legame tra alimentazione e bisogno di autonomia
Da quando nasce il bambino ha buone capacità autoregolatorie, quindi fin dall’allattamento egli sa ed esprime quando ha fame e quando è sazio; è bene fidarsi di questa capacità anziché definire a priori quantità e orari di allattamento. Intorno ai due anni d’età compare inoltre la motivazione a fare da solo, una spinta naturale all’autonomia. Chiunque abbia a che fare con i bambini sa quanto sia forte la volontà di autodeterminarsi che essi sviluppano in particolare in questa fase di vita. Ebbene, questo è particolarmente evidente anche nella sfera dei comportamenti alimentari, e ancor prima dei due anni. Già all’età di un anno si può notare come il bambino si senta stimolato a stabilire un contatto attivo e personale col cibo, cercando di afferrarlo durante i pasti.
Questo modo di agire è strettamente legato a quello che Lichtenberg ha definito “bisogno esplorativo-assertivo”, uno dei sistemi motivazionali comune a tutti gli esseri umani. Il bambino, dalla possibilità di fare e decidere in autonomia ricava un senso di essere, esistere ed essere causa del proprio agire. Se l’adulto cerca di inibire questa attività spontanea induce nel bambino il tentativo di liberarsi della sua influenza attraverso comportamenti di protesta per recuperare il proprio spazio di autonomia.
Il buon inizio: l’allattamento al seno come fattore preventivo dell’obesità
Tenuto conto del fatto che per alcune madri l’allattamento naturale può non essere fattibile per varie ragioni (mediche, personali), in questo articolo vogliamo approfondire quali siano, secondo varie evidenze scientifiche, i vantaggi legati all’allattamento al seno. Attraverso studi basati su osservazioni sistematiche è stato dimostrato infatti come costituisca un fattore protettivo rispetto al rischio di sovrappeso e obesità. Una delle maggiori ricerche è stata effettuata in Australia su un campione di 2066 maschi e femmine di età compresa tra 9 e 16 anni provenienti da tutti gli stati e territori del continente. Rispetto a quelli che non sono mai stati allattati al seno, i bambini nutriti con latte materno per un periodo maggiore o uguale a 6 mesi avevano significativamente meno probabilità di essere in sovrappeso o obesi in età infantile e adolescenziale. Anche gli ultimi dati della Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), presentati a Glasgow in occasione dello European Congress on Obesity (2019), ci mostrano che la prevalenza dell’obesità è maggiore fra i bambini non allattati al seno: il 16% di essi risulta obeso, contro il 13% di chi è stato allattato per meno di sei mesi e il 9% di chi invece è stato allattato per oltre sei mesi.
Le spiegazioni sul perché l’allattamento al seno sia protettivo rispetto all’obesità sono sia biologiche che comportamentali:
- un fattore fondamentale è la presenza della leptina nel latte materno, ormone proteico che regola l’assunzione di cibo e il metabolismo energetico, per cui i bimbi allattati hanno una concentrazione di insulina nel sangue più modesta rispetto alle alte concentrazioni dei bimbi allattati artificialmente;
- per i bambini allattati spesso lo svezzamento è ritardato (l’OMS raccomanda di iniziare lo svezzamento non prima dei 6 mesi d’età), graduale e con un’elevata attenzione alle esigenze del bambino: molto spesso infatti all’allattamento al seno a richiesta segue l’alimentazionecomplementare a richiesta o uno svezzamento “misto”;
- con l’allattamento a richiesta il bambino si autoregola sull’apporto di latte, dando avvio a quell’autonomia sull’assunzione di cibo a cui si accennava precedentemente. Questo ruolo attivo del bambino nell’autoregolarsi si manterrà per tutta la crescita e molto spesso, se non interferiscono altri fattori, ha un effetto a lungo termine;
- la varietà di gusto del latte materno assunto dal bambino lo predispone alla conoscenza di un’ampia gamma di sapori che poi troverà a tavola quando inizierà lo svezzamento e potrà aiutarlo a gradire vari cibi. Di conseguenza il bambino, dal divezzamento in poi, tenderà a mangiare una più ampia varietà di cibi.
L’alimentazione complementare a richiesta: un’esperienza graduale e compartecipata di svezzamento
Un’altra fase che attraversa il bambino per arrivare all’alimentazione autonoma è quella dello svezzamento, passaggio importante da gestire in modo adeguato per arrivare ad un rapporto equilibrato e sano con il cibo. Negli ultimi anni è stata rivalutata l’importanza della scelta del bambino sulle quantità e le tipologie di cibo da assumere in questa fase. Nell’alimentazione complementare vengono rispettati i tempi, i gusti e il grado di sviluppo dei bambini: in questo modo viene assecondato il loro bisogno di autonomia e si continua ad aver fiducia in loro, proprio come nell’allattamento a richiesta.
La ricerca ci dice chiaramente che avere fiducia nelle capacità autoregolatorie del bambino protegge dall’obesità ma anche da altri disturbi alimentari: anoressia, bulimia e alimentazione selettiva. Il primo pioneristico esperimento fu quello di Clara Davis pubblicato sul New England Journal of Medicine: vennero analizzati 36.000 pasti e studiato il comportamento alimentare di bambini lasciati liberi di mangiare ciò che volevano (esclusi i cibi “spazzatura”), per diversi mesi, senza alcun condizionamento da parte degli adulti. Si dimostrava che i bambini crescevano quantitativamente e qualitativamente nei limiti della norma. Questo nonostante l’irregolarità nella quantità e qualità dei pasti, e la variabilità dei loro gusti da un giorno all’altro. L’autrice concludeva affermando l’esistenza di un meccanismo efficace di autoregolazione che portava i bambini ad assumere, nel complesso, la giusta quantità dei vari nutrienti.
Come creare un imprinting funzionale? Intorno ai 6 mesi il bambino viene fatto sedere a tavola con i genitori, in modo che possa osservare quello che mangiano e scegliere di sperimentare quello che desidera, tra proposte varie, salutari e gustose. In un primo periodo ci saranno solo piccoli assaggi, ma non ci si dovrebbe preoccupare perché il bambino continuerà ad assumere il latte finché non farà dei pasti che lo saziano (l’OMS raccomanda di proseguire l’allattamento materno fino ai 2 anni di età se madre e bambino lo desiderano). Proprio per questo, tale tipologia di svezzamento è chiamata “alimentazione complementare”: cibi solidi e latte vanno a completarsi e integrarsi, una cosa non va ad escludere l’altra. Il bambino in questo modo avrà sempre un corretto apporto nutritivo perché il latte materno continua ad avere ottimi nutrienti per tutto il periodo in cui viene prodotto.
I genitori dovrebbero fare in modo di creare un contesto piacevole, in modo che il pasto sia per il bambino un’esperienza relazionale positiva: no a costrizioni su quantità e tipologia di cibi, possibilmente in un clima familiare sereno e senza dispositivi elettronici per intrattenerlo. In questo modo l’alimentazione potrà essere vissuta dal bambino come un’esperienza sensoriale e relazionale piacevole. Nello stesso tempo il momento dei pasti può essere vissuto con serenità anche dai genitori, cosa che va a creare un circolo virtuoso: un buon rapporto col cibo, un buon apporto nutritivo, salute psicofisica del bambino.
Infanzia: quali sono i fattori coinvolti nel problema dell’obesità?
Fattori di ordine biologico, di ordine psicologico e sociale. Le dinamiche psicologiche del paziente obeso nell’infanzia sono legate alla disponibilità del cibo presente nel suo ambiente di vita che si caratterizzerà per:
- qualità del cibo;
- quantità del cibo;
- modalità di consumo.
All’interno della “modalità di consumo” rientrano le dinamiche psicologiche infantili, caratterizzate da aspetti relazionali. Tali aspetti fanno dell’alimentazione e del sintomo iperfagico una questione di “cibo e amore”.
In che modo la relazione interviene nel sintomo iperfagico?
L’alimentazione nell’infanzia è mediata dalla presenza di un caregiver, dunque un bambino non può essere considerato a rischio obesità, se non per quei rarissimi casi in cui è presente un’eziologia medica del disturbo.
Dunque l’adulto che alimenta il bambino, sia il caregiver o l’insegnante che accompagna i bambini a mensa diventa ambiente “sociale” e “relazionale”, ovvero si presta ad essere fonte di sostentamento, intervenendo nel ciclo fame-sazietà, in una modalità che è unica per quella relazione e per quel contesto (casa, scuola).
L’alimentazione e, dunque, l’oralità, costituiscono una modalità di soddisfacimento pulsionale attraverso cui dare e ricevere amore, provare piacere, rifiutare o aggredire. Portare il cibo alla bocca, mordere, sputare e deglutire sono forme di comunicazione e di apprendimento delle modalità relazionali relative ai primi rapporti oggettuali.
Il sintomo iperfagico, in questo processo, può diventare una strategia disfunzionale, presente già in chi alimenta e appresa da chi viene alimentato. Il cibo diventa così il sostituto di quelle persone con cui non è stato possibile entrare in una relazione “sana” e la risposta a stati emotivi come:
- la ricerca di un intenso bisogno di gratificazione;
- la rassicurazione e ricerca continua di un oggetto d’amore;
- la difesa rispetto al senso di inadeguatezza.
La risposta a questi stati emotivi, spesso intensi o insostenibili, attiva un processo chiamato emotional eating, in cui alimentarsi costituisce una risposta compensatoria ad uno stato emotivo. L’esito di questo processo non sfocia in maniera causale nell’obesità, ma caratterizza come meccanismo di base, il funzionamento che è alla base dei disturbi alimentari attualmente presenti nel DSM 5.
Prevenzione: l’intervento dello psicologo scolastico mediante l’educazione alimentare
La proposta di un programma a cura dello Psicologo Scolastico in tema di educazione alimentare costituisce una risorsa possibile per effettuare un intervento di prevenzione primaria che tenga conto delle variabili emotive e relazionali, connesse all’alimentazione. Secondo l’Institute of Medicine of the National Accademy of Sciences, possiamo ricorrere a svariate modalità di prevenzione: universale, selettiva e mirata. Le forme di prevenzione che si rivolgono ad un alto numero di soggetti con programmi di comunità strutturati, ovvero le campagne educative, si propongono di raggiungere quella fascia di popolazione ritenuta ad alto rischio con programmi da svolgere proprio nelle scuole. Queste ultime, con la collaborazione della famiglia, possono diventare luogo di prevenzione in cui trovare: informazione, educazione alimentare ed interventi ambientali inerenti l’alimentazione (ad esempio l’incremento di programmi di educazione fisica o il controllo dei pasti offerti dalla mensa scolastica).
Questi interventi richiedono una conciliazione fra l’utilizzo delle linee guida internazionali nutrizionali ed il patto educativo scuola-famiglia. La mensa a scuola rappresenta l’occasione di una nuova convivialità per i bambini e dunque una valida esperienza dello “stare a tavola” in cui tradizioni alimentari ed utilizzo dei cinque sensi si fondono e si condividono con il gruppo dei pari e con la maestra.
E’ importante dunque che l’esperienza del cibo, data la sua complessità, venga vissuta attraverso momenti informativi e formativi con lo scopo di:
- sensibilizzare i genitori sull’importanza psicologico-emotiva del primo incontro con il cibo, ovvero dalla fase di allattamento;
- promuovere fiducia ed “allenare” le capacità intuitive dell’adulto, che sia il genitore o l’insegnante a mensa, nel cogliere lo stato emotivo del proprio bambino o dell’alunno al fine di distinguere bisogni fisiologici come la fame da bisogni relazionali;
- evitare usi impropri del cibo all’interno di dinamiche di potere (“se non mangi viene il vigile!”), del ricatto (“se non finisci la pasta non ti porto alle giostre!”), dell’affettività (“se non mangi divento triste!”) o ancora di comparazione rispetto ad altri bambini (“guarda com’è bravo tuo cugino, lui mangia senza problemi!”);
- imparare ad “abitare la tavola” intesa come esperienza con regole e spazi esplorativi in un clima di serenità, tanto da consolidare l’esperienza della convivialità come un buon incontro.
Scritto da: Francesca Rendine, Maria Grazia Flore