Ultimamente sembra sempre più importante formare professionisti capaci di rendere la morte nuovamente accettata e presente nella vita di ciascuno
Spesso ci si pone la domanda sulla funzione della psicologia: in fondo, a cosa serve? Solo ed esclusivamente a fornire strumenti per curare persone con una qualche patologia psichica?
Si può osservare che la quasi totalità di testi che si occupano di psicologia si apre con una propria definizione per la disciplina. Per quanto le definizioni possano differire nella forma, la sostanza pare potersi riassumere nel fatto che la psicologia (che nel suo significato etimologico di derivazione greca è la scienza che studia l’anima, lo spirito) si occupa dello studio di funzioni cognitive, funzioni affettive e funzioni comportamentali, sia dal punto di vista fisiologico, sia nelle loro deviazioni patologiche.
Individuato, quindi, il contenuto della psicologia, per comprendere come tale contenuto possa essere utilizzato è opportuno fare riferimento all’art. 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. Il primo comma, infatti, invita gli psicologi a considerare proprio dovere l’accrescimento delle conoscenze sul comportamento umano e a utilizzare tali conoscenze per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. Il secondo comma prosegue con l’indicazione che riguarda l’operatività dello psicologo in ogni ambito in cui esercita la propria professione: tale operatività è rivolta al miglioramento della capacità delle persone di comprendere se stessi, gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Pertanto, a ben leggere, è lo stesso Codice che indica a cosa serva la psicologia: a conoscere il comportamento umano al fine di utilizzare professionalmente tale conoscenza, per promuovere il benessere psicologico dell’individuo.
Il benessere psicologico viene inteso non solo come mero stato di assenza patologica o di disagio, ma come situazione nella quale ciascuno è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per riuscire ad adattarsi costruttivamente alle situazioni che, di momento in momento, si trova a vivere, siano esse caratterizzate da input esterni o interni (OMS). In tal senso, il secondo comma dell’art. 3 può essere letto quale indicazione sulla traiettoria che prende, allora, la psicologia: quella, cioè, di migliorare la capacità di comprendere se stessi e gli altri (istanze interne ed esterne, come si è visto) al fine di un adattamento all’ambiente attraverso l’espressione di comportamenti consapevoli (il soggetto sa), congrui (il soggetto sa di essere adeguato) ed efficaci (il soggetto sa di essere in grado di raggiungere i propri obiettivi e, quindi, di direzionare il proprio comportamento).
Le situazioni che ciascun individuo si trova ad affrontare nel corso della propria esistenza necessariamente variano e appartengono, potenzialmente, a un insieme pressoché infinito di accadimenti, tuttavia ciò che sicuramente tutti, prima o poi, sperimentano è la morte, propria e altrui. In particolare nel mondo Occidentale, la morte nel corso degli ultimi due secoli ha evocato sempre più angoscia, paura e imprevedibilità, al punto da meritare, secondo l’antropologo Gorer, l’aggettivo di “pornografica” (egli pubblicò nel 1955 un articolo dal titolo “The pornography of death”). In una recentissima pubblicazione, la De Caro introduce il proprio testo dedicato alla psicologia del distacco proponendo una riflessione riguardo a quanto spesso capiti, nella supervisione dei tirocinanti in attesa di abilitazione, di imbattersi nella loro riportata frustrazione per non poter fare nulla di fronte a persone in lutto, proprio perché alla morte non c’è rimedio. L’irreversibilità della morte, secondo la De Caro, può generare, quindi, nel professionista a cui viene chiesto sostegno per affrontare una morte, un senso di inadeguatezza, di impotenza e di, addirittura, impossibilità di intervento. La psicologia, che come si è visto sopra è volta alla co-creazione di benessere psicologico mediato dall’intervento del professionista (quando richiesto), ha elaborato diversi strumenti, sia teorici sia pratici, per contribuire a tale obiettivo.
Il lutto è lo stato emotivo di dolore che si prova per una perdita (Pesci) e tale definizione riprende quella proposta da Freud più di un secolo fa nel testo Lutto e Melanconia: insieme di reazioni emotive e affettive a un’esperienza di perdita. Dolore e sofferenza per una perdita sono fisiologici, quando tuttavia il soggetto rimane incastrato in una condizione di dolore permanente o bloccante, possono instaurarsi una serie di funzionamenti tali per cui il lutto non viene elaborato e, quindi, non viene risolto. Un lutto si può definire elaborato/risulto nel momento in cui il soggetto riesce a ristrutturare sé stesso, adattandosi agli altri e all’ambiente in modo nuovo, un modo che contempla come reale e presente la perdita che ha vissuto e, pertanto, l’assenza.
Elizabeth Kübler-Ross, nel testo La morte e il morire (1970), ha descritto cinque fasi nel processo di elaborazione del lutto: shock o negazione (il soggetto rifiuta l’evento, immerso in una realtà non più “reale”, quella in cui la perdita non è avvenuta); rabbia (nel soggetto si manifestano emozioni molto forti e tende a sfogare nell’ambiente, con parenti, sanitari, persone a lui comunque vicine, la frustrazione della perdita); patteggiamento (il soggetto inizia a “masticare” l’assenza, prendendo in esame le alternative che ha nell’affrontarla); depressione (quando l’assenza si manifesta in tutto il suo dolore, il soggetto sperimenta un senso di sopraffazione e di impotenza dato dall’irreversibilità della condizione in cui si trova); accettazione (il soggetto finalmente è riuscito ad attraversare l’assenza, a esserne consapevole e a ristrutturare se stesso e l’ambiente in cui vive, anche nelle relazioni con gli altri). Il modello appena presentato è ancora oggi uno dei più utilizzati per descrivere le dinamiche interne ed esterne delle persone che affrontano un lutto e si ritiene utile precisare che si tratta di un modello a fasi, non a stadi: le fasi possono ricorrere più volte, il soggetto può ripercorrerle in un avvicendamento che non necessariamente è lineare come sopra riportato. Tuttavia, al fine di poter definire un lutto come “elaborato”, ciascuna fase è fisiologica e consente il passaggio a un’altra fase. Al fine di consentire al soggetto l’elaborazione del lutto, quindi, è opportuno disporre di strumenti per accompagnarlo nell’attraversamento di ciascuna di queste fasi, aiutandolo soprattutto a comprendere quanto esse siano normali, pur se nella loro intrinseca novità risultino spaventose.
Secondo una teorizzazione più recente, Bowlby individua nella perdita di una figura di attaccamento un evento che attiva un’angoscia intensa e pervasiva, definita “Separation Distress”: il soggetto sperimenta l’idea di impossibilità di ottenere un senso di sicurezza e amore senza la disponibilità della figura di attaccamento persa. Il processo di separation distress attraversa, secondo l’autore, quattro fasi (1980): stordimento (caratterizzata dal rifiuto emotivo della notizia, pur nella consapevolezza cognitiva dell’evento); struggimento (caratterizzata dalla manifestazione dirompente di tristezza in occasione dei riti funebri e da possibili, successive o concomitanti, esplosioni di rabbia); disorganizzazione (caratterizzata dalla constatazione dell’irreversibilità della perdita e dalla conseguente revisione della realtà: il soggetto reagisce a tale revisione con apatia, depressione umorale, isolamento); riorganizzazione (caratterizzata dalla costruzione di un nuovo modello di vita, da parte del soggetto, modello che include l’assenza).
Partendo, infine, dalla Cognitive Stress Theory di Lazarus e Folkman elaborata negli anni Ottanta, si può ipotizzarne una sua applicazione al processo di elaborazione del lutto in termini di caratteristiche degli stressor, intensi quali eventi traumatici, di strategie di coping, intese quali insieme di processi adattivi messi in atto dal soggetto per affrontare gli stressor, e di relazioni causa-effetto che possono derivare dal binomio stressor-coping, ivi inclusa l’analisi degli outcomes (stato di salute fisica e mentale, o meno, che ne deriva). Stroebe e Schut nel 1999 hanno proposto in tal senso il Dual Processing Model (DPM), integrando fra teoria dello stress cognitivo appena descritta e teoria dell’attaccamento: il processo di elaborazione del lutto, secondo questo modello, si muove in una dinamica di continua tensione fra approccio ed evitamento della perdita e di tutto ciò che ad essa è collegato. Vi sono, quindi, strategie orientate alla perdita che portano all’elaborazione della perdita dell’altro significativo: elaborazione del lutto in senso stretto, rivalutazioni positive e negative dell’assenza, ricollocazione dell’altro significativo in una dimensione che prescinda la sua presenza fisica; e strategie orientate alla riorganizzazione che consentono di affrontare le conseguenze dirette legate alla perdita: compiti che solitamente venivano svolti dall’altro significativo, riorganizzazione materiale della vita nell’assenza dell’altro, cambiamento di identità (da sposato a vedovo, da figlio a orfano, ecc.). Nel modello è centrale il concetto di oscillazione: il processo, infatti, è estremamente dinamico in quanto l’individuazione di strategie di coping adattive non può essere lineare e priva di ostacoli, portando il soggetto attraverso stati funzionali e disfunzionali di fronteggiamento, al fine di consentirgli l’individuazione di quella che meglio gli consente di andare “oltre”, passando “attraverso”.
Le teorizzazioni appena descritte (a titolo di esempio) sono, per parlare in termini gestaltici, lo “sfondo” di “figure” più pratiche di supporto alle persone che si trovano ad affrontare la perdita di un altro significativo. Questi strumenti pratici possono essere applicati sia a un contesto individuale, sia di gruppo o di comunità (intesa quale famiglia, scuola, ambiente lavorativo, ecc.).
Sono stati elaborati numerosi questionari per la valutazione/esplorazione dei sintomi maladattativi legati alla morte o comunque alla perdita di un altro significativo, uno di questi è il l’ICG (Inventory Complicated Grief di Prigerson et al. 1995): si tratta di uno strumento che consente di individuare situazioni di lutto complicato, laddove il punteggio ottenuto sia superiore a 30. Viene somministrato in 10 – 15 minuti, è costituito da 19 items a ciascuno dei quali si attribuisce un punteggio da 0 (mai) a 4 (sempre). La validazione italiana è stata effettuata in tempi recentissimi (2013 – 2014) su 229 soggetti e il punteggio di cut-off maggiormente discriminante per il lutto complicato è risultato essere 30.
Nell’ambito di contesti che coinvolgono più persone, si è visto come la promozione nella realizzazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto (ama) sia di grande supporto nell’elaborazione del lutto per persone che condividono esperienze di perdita. Recentemente Colusso ha proposto in Veneto questo tipo di esperienza all’interno di un contesto di Hospice: viene fornita la possibilità, ai familiari di persone ricoverate (che, in media, perdono la vita nel giro di 4 mesi dall’ingresso nell’Hospice), di partecipare a gruppi in cui i membri hanno in comune la recente perdita di un loro caro. Il modello di ama proposto da Colusso prevede innanzitutto la formazione di soggetti in grado di condurre il gruppo: si tratta di operatori-volontari cui viene esposta l’importanza della narrazione, dell’ascolto e dei riti; ciò consente loro di diventare catalizzatori nell’espressione del dolore e nella condivisione. Centrale, nei gruppi ama per l’elaborazione del lutto, è la risonanza che le narrazioni creano in ciascun partecipante: l’esperienza viene vissuta come un conforto preziosissimo, in quanto spesso i membri riportano il sollievo sperimentato in tal senso, con frasi riassumibili in “ma allora si può parlare della morte”.
Se le precedenti considerazioni contemplano azioni mirate al raggiungimento del benessere psicologico in setting individuale o di gruppo nell’ambito di un lutto non elaborato e quindi già avvenuto, un’ulteriore riflessione può essere proposta nell’attenzione sempre maggiore che la formazione accademica dedica alla morte e al lutto. Viene evidentemente percepito come attuale e opportuno il bisogno di formare professionisti in grado di operare in tali ambiti, legati alla sofferenza in caso di prognosi infauste e alla morte in sé, intesa quale evento naturale della vita. Un esempio del primo ambito è la proposta formativa di Master, in particolare di II livello, in Psiconcologia (si può citare quello dell’Università Cattolica di Roma). Un esempio del secondo ambito è il Master di II livello in Death Studies proposto dall’Università degli Studi di Padova.
Formare professionisti in questo senso risponde all’urgenza di rendere la morte nuovamente accettata e presente nella vita di ciascuno, così come lo è stata in tempi più remoti. Il professionista che ha gli strumenti per parlare e sentir parlare della morte, ha la possibilità di promuovere il benessere psicologico anche in termini di prevenzione: nelle comunità familiari, scolastiche, delle Associazioni di Promozione Sociale, ma anche in quelle degli operatori sanitari di qualsiasi livello che affrontano la morte quotidianamente (nelle RSA, negli Hospice, nei reparti ospedalieri, negli ambulatori veterinari) e via discorrendo si possono avviare percorsi che consentano alle persone di familiarizzare con la propria e l’altrui fine della vita, onde restituire al lutto la dignità che l’aggettivo “fisiologico” gli tributa.
Scritto da: Alessandra Rossi