Le malattie rare sollecitano vissuti di disagio e solitudine; entra quindi in scena la capacità di arte e fotografia di far emergre i vissuti interni
Negli anni Settanta del Novecento è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza, aprendo così alla possibilità di utilizzarla anche con persone affette da malattie rare.
Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano
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La fotografia, come la pittura e qualsiasi altra forma d’arte, può diventare uno strumento molto potente per far emergere un vissuto “invisibile”. La fotografia diventa terapeutica quando assume il delicato ruolo di facilitare e promuovere il riconoscimento di stati emotivi e la loro comunicazione.
Edith Kramer, pittrice e pioniera dell’arteterapia, sosteneva che l’opera d’arte fosse come un “contenitore di emozioni” e considerava l’atto stesso del creare come terapeutico di per sé. La fotografia cattura le emozioni attraverso l’obiettivo e l’atto stesso di fotografare può diventare, dunque, una forma terapeutica. La forza della fotografia in campo terapeutico non è dovuta tanto alla sua validità artistica che anzi risulta essere irrilevante, ma è data dalla sua efficacia nel rievocare il simbolico personale del paziente, nell’aiutarlo a far riemergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010).
Malattie non diagnosticate
Con il termine inglese “Malattie non diagnosticate” si intende un eterogeneo gruppo di patologie che restano senza nome a causa della mancanza di una diagnosi definitiva. Il ritardo o la completa assenza di diagnosi rappresenta uno dei principali ostacoli da superare per i pazienti affetti da malattie rare, condizioni che, essendo caratterizzate da un’estrema varietà e da una bassissima incidenza, è assai complicato identificare anche nel caso in cui siano effettivamente disponibili strumenti diagnostici adeguati. La diagnosi può essere definita come la conoscenza della patogenesi di una data malattia, basata su riscontri clinici e/o genetici e in grado di fornire una successiva prognosi e terapia. Il ritardo nella diagnosi, che può cambiare significativamente in base al tipo di patologia e al Paese d’origine del paziente, impedisce quindi, innanzitutto, l’inizio di un percorso di cura specifico, con conseguenze irreversibili e potenzialmente fatali per il malato. Inoltre, nel tentativo di ottenere una diagnosi corretta e definitiva, i pazienti e i loro familiari sono costretti ad affrontare un percorso spesso molto lungo, travagliato e dispendioso, nonché costellato di pareri medici errati e/o approssimativi ed esami clinici inconcludenti o non necessari. A tutto ciò occorre aggiungere il fatto che, in molti casi, è ancora oggi possibile che un malato resti senza diagnosi per tutta la vita. In base a quanto stabilito nelle “Raccomandazioni internazionali congiunte per affrontare le esigenze specifiche dei pazienti affetti da malattie rare non diagnosticate” (Ottobre 2016) è opportuno distinguere due distinti gruppi di pazienti senza diagnosi:
- quelli ‘Non ancora diagnosticati’, che vivono con una patologia non diagnosticata nonostante una diagnosi sia disponibile, in quanto non sono stati riferiti a specialisti appropriati a causa di sintomi comuni e fuorvianti o di una presentazione clinica atipica di una malattia rara diagnosticabile;
- quelli ‘Non diagnosticabili’ (SWAN), per cui non è disponibile un test per la diagnosi in quanto la malattia non è stata descritta o la causa non è stata ancora identificata. Questi ultimi possono ricevere una diagnosi erronea in quanto la malattia può essere facilmente confusa con altre. Le malattie di questo tipo, definite anche come “senza nome”, sono probabilmente malattie rare.
In entrambi i casi i malati, assieme alle loro famiglie, potrebbero non ricevere mai una diagnosi, e non è possibile comprendere a priori in quale dei due gruppi si trovi uno specifico paziente. Nonostante ciò, tale distinzione risulta essere fondamentale per la progettazione e l’adozione di strategie in grado di migliorare la diagnosi delle malattie rare.
Oltre il visibile: cosa sono le malattie rare?
Una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera una soglia stabilita. In UE la soglia è fissata allo 0,05 per cento della popolazione, ossia 5 casi su 10.000 persone. La metà delle malattie rare compaiono alla nascita o durante l’infanzia, l’altra metà si manifestano in età adulta. La gran parte delle malattie rare sono di origine genetica ma possono anche essere attribuite al risultato dell’esposizione ambientale durante la gravidanza o durante particolari fasi della vita, spesso in presenza di particolare suscettibilità genetica (Notizie acquisite dall’Istituto Superiore di Sanità). Ogni malattia può presentarsi in forme diverse e questo rende il suo riconoscimento ancora più difficile e complicato.
Esternamente la persona sembra star bene, non mostra i segni che ci si aspetterebbe di trovare in un soggetto “malato” proprio perché spesso le malattie rare sono malattie invisibili. Il corpo non platealizza, anzi spesso contiene, un profondo malessere prima fisico e poi psicologico. La persona vede se stessa trasformarsi, peggiorare. Quando le malattie rare colpiscono la popolazione giovane il rischio di un crollo psicologico è ancora più elevato. Il soggetto si trova a dover affrontare l’impossibilità di compiere alcune attività, effettuando spesso un paragone tra sé e gli altri, tra il prima e l’adesso. La malattia appare come aggressiva, spesso non c’è cura e si agisce solo per alleviare i sintomi usando farmaci, fisioterapia. Per la maggior parte di queste malattie, ancora oggi non è disponibile una cura efficace, ma numerosi trattamenti appropriati possono migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata. In alcuni casi sono stati ottenuti progressi sostanziali, dimostrando che non bisogna arrendersi ma, al contrario, perseguire e intensificare gli sforzi della ricerca e della solidarietà sociale. Tutte le persone affette da queste malattie incontrano simili difficoltà nel raggiungere la diagnosi, nell’ottenere informazioni, nel venire orientati verso professionisti competenti. Sono ugualmente problematici l’accesso a cure di qualità, la presa in carico sociale e medica della malattia, il coordinamento tra le cure ospedaliere e le cure di base, l’autonomia e l’inserimento sociale, professionale e civico. La solitudine è il pericolo maggiore che corre chi soffre di una delle tante malattie rare, la quale può sopraggiungere per la mancanza di informazione e conoscenza della patologia. La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento.
Guardandomi, nessuno sospetta che la mia vita possa essere fatta di intere giornate a letto con dolori profondi alle gambe, rinuncia ad una vita sociale normale, limitazioni, rallentamenti, infezioni, stanchezza cronica, ricoveri mensili…Tutto questo dall’esterno non si vede, sembro una normalissima ragazza sana e attiva. Ma se il dolore non è visibile, non vuol dire che non esista. E’ un combattimento corpo a corpo con qualcosa di ignoto, con la speranza, un giorno, di avere la mia vittoria definitiva (testimonianza di Claudia Amatruda, 23 anni).
I “costi” da subire
Indipendentemente dall’eterogeneità delle malattie rare, i pazienti colpiti e i loro familiari si confrontano con la stessa ampia gamma di difficoltà che deriva direttamente dalla rarità di queste patologie:
- difficoltà nel giungere ad una diagnosi corretta
- ritardo nella diagnosi e/o diagnosi errate
- carenza di informazione
- carenza di cure di qualità appropriate
- alti costi delle cure
La prima sfida che devono affrontare i pazienti e le famiglie è giungere alla diagnosi: è questa spesso la battaglia più disarmante. Questa lotta si ripete ad ogni nuovo stadio di evoluzione della malattia. La carenza di conoscenza sulla malattia spesso mette in pericolo la vita dei pazienti e conduce ad enormi perdite: ritardi e ricoveri inutili, infinite consulenze specialistiche e prescrizione di farmaci e trattamenti inadeguati o persino inutili. Poiché si sa così poco sulla maggior parte delle malattie rare, una diagnosi accurata è solitamente tardiva, quando il paziente è già stato curato per molti mesi o perfino anni per un altro disturbo più comune. Spesso, solo alcuni sintomi sono riconosciuti e trattati.
In assenza di una diagnosi corretta, i dipartimenti di emergenza non sono in grado di fornire un trattamento adeguato. Incomprensione, depressione, isolamento e ansia sono parte integrante della vita di tutti i giorni della maggior parte dei genitori di bambini affetti da malattie rare, specialmente nel periodo che precede la diagnosi.
Tra i punti prima elencati vi è uno ancora più importante che spesso appesantisce il quadro clinico: la sfera sociale.
L’intera famiglia di un paziente affetto da malattie rare, sia adulto che bambino, è colpita dalla malattia del loro caro e diventa emarginata psicologicamente, socialmente, culturalmente ed è economicamente vulnerabile.
Dopo periodi molto lunghi si giunge alla fase 2: la diagnosi. Un altro momento cruciale per i pazienti affetti da malattie rare è la scoperta della diagnosi: a dispetto dei progressi fatti negli ultimi anni, la diagnosi di malattia rara è spesso comunicata in maniera inadeguata. Molti pazienti e le loro famiglie descrivono come insensibile e poco esaustivo il momento della comunicazione della diagnosi. Il problema è comune tra i medici, che troppo spesso non sono organizzati né addestrati nella buona pratica della comunicazione delle diagnosi.
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Indipendentemente dalla modalità in cui la malattia rara viene scoperta, essa porterà ad un inevitabile cambiamento. Quando il soggetto riceve la diagnosi, benchè vi sia sollievo iniziale, successivamente egli entra in una fase della vita “nuova” e diversa dalla precedente. Il setting familiare si modifica, il suo ruolo familiare riceve bruschi cambiamenti e tutto viene riorganizzato e ripensato nel contesto “malato”. Il paziente assume così il ruolo di malato, dal quale difficilmente riesce ad evadere: la sfera personale, sociale e lavorativa viene riletta nell’ottica della malattia, fino a far emergere spesso nella mente di chi soffre “io sono la mia malattia.” Il soggetto non riesce ad andare oltre, crea un muro, nascondendosi in esso anche dai familiari stessi e da se stesso. Per aiutare i pazienti affetti da malattie rare e le loro famiglie a far fronte ai loro progetti per il futuro e al crollo delle loro aspettative è estremamente necessario un supporto psicologico. Ogni madre e padre sanno quante preoccupazioni e speranze per il futuro sono implicate quando si aspetta un figlio. Ma cosa significa avere una diagnosi – o avere un figlio con una diagnosi – di malattia rara non può essere spiegato. Spesso i sogni di carriera e benessere affettivi sono sostituiti da nuovi sogni come la speranza di riuscire a riportare il proprio familiare a casa dall’ospedale o che viva serenamente senza soffrire troppo.
La fotografia
Le reazioni di fronte ad una situazione di sofferenza sono ovviamente soggettive e sono collegate con l’immagine mentale interna che abbiamo di noi stessi: essa riguarda sia il modo in cui ci vediamo ma anche il modo in cui vogliamo essere visti dagli altri.
Oltre al riconoscimento della sua funzione documentaria e di valore estetico, la fotografia può essere un potente mediatore tra ricordo e memoria. Connessa da tempo, intimamente, alla nostra identità culturale, la fotografia è capace di sostituire la memoria con cui comunica e ne condivide il presente.
La fotografia e le malattie rare
Quando la fotografia incontra una persona portatrice di una malattia rara può nascere un legame. Per alcune di esse, la fotografia può rappresentare l’unico modo per riuscire ad accettare l’etichetta “rara”, vivere la rassegnazione e cercare di accettarsi. Percorso questo non semplice, spesso la malattia cambia e modifica la percezione di sé, carica il corpo di una valenza negativa. Può accadere che chi soffre di malattie rare si isoli, disconosca il proprio corpo volgendosi più verso una negazione di sé, faticando nel guardarsi allo specchio perché quest’ultimo rimanda un’immagine di sé che non coincide. L’incertezza circa la natura del proprio malessere spesso conduce il malato, dopo una sequenza di visite mediche ed esami insoddisfacenti, ad isolarsi nel suo dolore e rifiutare qualsiasi proposta di indagine. La chiusura non riguarda solo la sfera amicale, la persona finisce con l’escludere anche la propria famiglia. Ci si sente soli anche se non lo si è. Esistono malattie rare cui si associa il fenomeno del farmaco ‘orfano’, che non si trova in commercio a causa dell’insufficienza di richiesta di mercato utile a ripagarne la produzione, a cui si combina la mancanza di esenzioni ed assistenza a livello pubblico e privato. Le caratteristiche proprie delle malattie rare (bassa frequenza nella popolazione, difficoltà diagnostica e conseguente peregrinazione fra diverse strutture sanitarie, scarsità di terapie risolutive, cronicità) sollecitano vissuti di disagio e solitudine nelle persone colpite da tali patologie e nei loro familiari più che in altre malattie. A questo punto entra in scena l’arte: la fotografia, la danza, la pittura sono solo alcune forme di arte capaci di far emergere i vissuti interni. E’ stato solamente negli anni Settanta del Novecento che è avvenuto il riconoscimento ufficiale del potere terapeutico della fotografia grazie all’articolo di Judy Weiser (1975) sulla “Foto-Terapia”, ovvero sull’utilizzo della fotografia all’interno del processo psicoterapeutico come mezzo per esplorare se stessi e fare emergere contenuti non verbali, soprattutto con quei pazienti che avevano difficoltà a far emergere la loro parte emotiva strettamente collegata a vissuti del passato di cui non avevano consapevolezza. La Foto-Terapia è una pratica terapeutica in cui vengono usate le foto personali, gli album di famiglia, le foto scattate da altri come elemento stimolante per approfondire la comprensione e migliorare le sedute terapeutiche condotte da professionisti specializzati (psicologi psicoterapeuti) e formati in tali tecniche, in un modo che non sarebbe possibile usando solamente le parole. Nella Foto-Terapia il terapeuta assegna dei compiti fotografici al paziente per poi aiutarlo nella lettura e nella comprensione dei suoi scatti all’interno del processo terapeutico. La fotografia però può essere adoperata anche in assenza di uno specialista, con lo scopo di aumentare il livello di auto-conoscenza, incrementare la propria consapevolezza, per risolvere piccoli conflitti non di tipo patologico, per attivare un cambiamento positivo o per migliorare le relazioni interpersonali. Essa può essere quindi usata anche in contesti didattici, formativi, educativi, ma sempre con finalità non cliniche e senza la presenza di uno psicoterapeuta. Ciò che si promuove in entrambi i casi, non è la tecnica o la bravura nel realizzare una foto, molto spazio viene lasciato al percorso simbolico in cui vengono attivate capacità e potenziale. È d’aiuto ed interessante scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni. Adrian Hill, insegnante d’arte, sottolinea l’importanza che riveste anche il solo fare fine a se stesso, in quanto esso sarebbe in grado di produrre quella scarica emozionale indispensabile per cercare di sfogare angoscia e dolore. Edith Kramer, precedentemente citata, sposta l’attenzione al processo creativo. Non è il prodotto finale a destare attenzione, ma lo è il processo creativo in quanto parte fondamentale per ottenere risultati: il lavoro non è visto solo in termini di espressione dei conflitti interni ma come risorsa per la loro risoluzione.
“Naiade”
Nelle situazioni più complesse e “rare” possono emergere risorse sconosciute e importanti. L’avvicinamento alla fotografia, come a qualsiasi forma d’arte, nasce il più delle volte spontaneamente. Si utilizzano perciò le immagini per esprimere la condizione di invisibilità del dolore, del buio di una diagnosi incompleta e non definitiva. Spesso la fotografia può essere usata come momento di condivisione, anche tramite i social network, per raccontare la malattia, la realtà degli ospedali, per raccontarsi. L’immagine fotografica si rivela essere uno strumento utile per guidare il paziente verso l’accettazione di situazioni difficili e sentimenti spesso insostenibili, laddove è necessario consolidare una comunicazione che va oltre il verbale. Prima di arrivare a questa fase, il percorso è lungo, spesso esso è preceduto da un periodo di non accettazione, di isolamento, di chiusura. Riprendere in mano la propria vita richiede una percentuale interna alta di resilienza. La capacità di reinventarsi, di “assorbire un urto senza rompersi”, porta, a piccoli passi, il paziente a guardarsi intorno e trovare strumenti personali e soggettivi utili per proseguire. Il confronto tra il prima, l’adesso e il dopo può far cadere vittima di depressione e tenta il soggetto in più occasioni. La famiglia e il soggetto sono in una posizione fragile e instabile, ma soprattutto nuova, ingestibile e intollerabile in alcuni casi. Alcuni trovano nella fotografia la propria via di uscita. Il semplice riuscire a concentrarsi sull’immagine, a cercare di catturare i dettagli, funge probabilmente da alternativa a rimuginio o ruminazione che possono incastrare il pensiero in un circolo vizioso. Di riflesso, il vedere la persona sofferente muoversi, uscire, impegnarsi in una attività, concentrarsi, è di aiuto anche ai familiari. Potremmo supporre a questo punto che la fotografia abbia quindi una molteplicità di funzioni che si ripercuotono positivamente su tutto il nucleo familiare. La fotografia acquista per la persona un potere curativo (da qui il richiamo alle naiadi). Alla fotografia dovrebbe però essere sempre accompagnato un percorso terapeutico e di sostegno familiare per rinforzare le risorse personali. È opportuno però ricordare che la riuscita non è dovuta ad un potere “magico” attribuibile ad un oggetto quale la fotocamera, essa scaturisce da un lungo lavoro, spesso scandito da cadute, fallimenti e successi attribuibili al soggetto. La persona si allontana dalla sua zona di comfort per ricominciare a “camminare”.
Scritto da: Maria Obbedio